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VENEZIA 2004
Diario (non ufficiale) di un cinefilo errante

 

Alla fine uno ci si abituava e non ci faceva più caso. Bastava uscire di casa e fare qualche passo nel tratto di lungomare tra il Palazzo del Cinema e l’Hotel Excelsior per essere letteralmente rapiti dall’ambiente fiabesco del Festival. Dopo i primi giorni di esaltazione generale, ormai tutto diventava normalità. Anche gli incontri fatti casualmente con Tom Cruise o Mia Farrow, tanto per fare qualche nome. Tutto tranquillamente normale come le file interminabili per poter accedere alla Sala Grande alla proiezione di “Collateral” o i fischi interminabili per la mediocre interpretazione di Stefano Accorsi in “Ovunque sei” che s’è così meritato dalla critica l’appellativo del “Pipino il Breve” del Cinema Italiano. Venezia è anche questo. Capitava poi di uscire da una proiezione ed essere “aggrediti” dalla stampa che, con le loro telecamere al braccio impugnate come fucili da caccia, chiedevano un parere, una sensazione sul film appena visto. Era la dura vita dell’accreditato che, di giorno in giorno, veniva sparato di sala in sala, di film in film come una pallina impazzita del flipper. Dall’horror al drammatico, dal film in costume alla commedia passando poi per il pecoreccio, il passo era veramente breve. Avevamo una media di 5 film a giorno e, accadeva pure che, nel buio e al calduccio tra le comode poltrone della Sala Perla qualcuno, durante la proiezione di “Roma ore 11.00” di Giuseppe De Santis, piombasse nel sonno più profondo. Visto il ritmo delle giornate, il crollo fisiologico, era spesso comprensibile. Le nostre giornate, quindi, scandite dalle fitte proiezioni che ormai non ci davano più neanche il tempo di osservare il sorgere o il tramontare del sole, scorrevano velocemente sino a mezzanotte quando scattava l’ora Tarantino. E nell’ora Tarantino tutto in sala si faceva più familiare. Era l’ora del cinema italiano, l’ora della “Storia segreta del Cinema italiano” parafrasando il titolo della retrospettiva curata, oltre che dall’autore Marco Giusti, dal regista americano Joe Dante e, dallo stesso Quentin Tarantino. A parte Enrico Ghezzi segregato spesso all’estrema sinistra della seconda fila in religiosa solitudine da cinefilo incallito, per Quentin e Joe, la proiezione di mezzanotte era diventata un appuntamento fisso. Soprattutto per Tarantino che, come ci ha lui stesso raccontato in sala, da quando negli anni settanta vide per la prima volta una copia de “I padroni della città” di Fernando Di Leo, non smise più di ammirare il cinema di genere che in quegli anni infuocò il cinema italiano. Un amore viscerale, il suo, tanto che è stato (ed è tuttora continuamente) citato nelle sue opere più famose, da “Le Iene” a “Kill Bill” passando poi all’ultimo suo progetto sulla sceneggiatura di un film ambientato durante la seconda guerra mondiale che prende direttamente spunto da “Inglorius Bastards”, titolo inglese del capolavoro italiano di Enzo G. CastellariQuel maledetto treno blindato”. E pensare che una sera è stato lo stesso Tarantino a presentare al pubblico una copia personale di “Cosa avete fatto a Solange?”, giallo cult anni settanta di Massimo Dallamano. Rivalutare ciò che non potremmo più vedere. Ecco l’idea di base della retrospettiva. In fondo è anche questa la funzione di un Festival. Ed in questa 61.Mostra d’Arte Cinematografica, di film destinati all’oblio nell’attuale mercato italiano ne sono passati anche altri. Ne è un esempio il nutrito numero di film orientali che hanno alimentato il programma della Mostra. La riscossa dell’Oriente. Pellicole che, forse, per delle precise scelte di mercato, non potranno mai circuitare nel nostro mercato distributivo ma che, comunque, colpiscono all’occhio per l’inopinabile lontananza dal sistema culturale del cinema occidentale. Storie estreme quindi, e nello stesso tempo, poetiche. E’ il caso di “Ferro 3” del regista Coreano Kim Ki-duc premiato per la migliore regia o dell’inquietante trittico di Miike Takashi, Parc Chan-Wook e Fruit Chan.
Storie di straordinaria anormalità che si sono miscelate ai grandi temi dell’attualità come l’aborto e l’eutanasia. Con “Vera Drake” di Mike Leigh e “Mare Dentro” di Alejandro Amenàbar ha vinto così il cinema d’impegno sociale. Un cinema che pur non navigando tra le acque della ricerca estetica ed emotiva dell’immagine filmica, ha puntato la sua rotta in quello spazio tra cielo e terra in cui la realtà vince sulla sua spettacolarizzazione.

 

Il monumentale ingresso al Festival

 

Foto di gruppo della giuria del festival

 

Un'immagine della premiazione della coppia Bardem Amenabar

 

Steven Spielberg e Tom Hanks

Samuele Baccifava
   
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