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SPECIALE UNIBOX

LA PASSIONE (RI)MEDIATA
DI CRISTO

 

Morale della favola: il giornalismo insegna che gli eventi vanno costruiti.
Con dedizione ed impegno poi, i giornalisti insegnano che è “nell'attesa” la “gioia più compita”.
Nell'attesa. E non nell'evento. D'altronde - nel linguaggio di un giornalista - che cos'è un evento, se non il frutto di un'attesa?
L'evento è l'uscita del 7 aprile, in cinquecento sale italiane, della “Passione di Cristo”, ultima fatica del regista cuore impavido Mel Gibson.
L'attesa è tutto il gran chiacchiericcio mediatico sollevato sull'argomento dai vari mezzi di comunicazione. In primis la stampa e la televisione.
Mi sono così divertito a raccogliere articoli, ritagli di giornale, pezzi presi da internet per vedere ed analizzare come diverse testate giornalistiche, in diversi giorni, abbiano affrontato uno stesso tema. Un po' ricercatore, un po' Nanni Moretti del film “Aprile” è partita la mia scommessa: come alcuni media hanno affrontato l'evento. Una lettura disincantata e non politica sui diversi “modus operandi” della comunicazione strategica di un avvenimento giornalisticamente molto importante.
C'è chi si è buttato sulla crudezza della immagini iper-realistiche del sangue versato, chi ne ha dato una lettura politica, chi ha seguito un percorso storico/revisionista e chi, infine, s'è limitato a riportare solo le diverse opinioni della stampa estera.
Tutti insieme appassionatamente. Tutti insieme ma decisi nel creare l'evento cinematografico dell'anno. Siete pronti? La macchina mediatica da guerra, quella che sbancherà i botteghini (la storia è stata già scritta) è già partita.
Dibattiti, dure e accese prese di posizione o di distanza, siparietti televisivi, chi è Pro, chi Contro e tanto, tanto inchiostro da disperdere in lunghe discussioni tra le pagine dei quotidiani. Bene o male, l'importante è che se ne parli. Dunque parliamone.
Mini rassegna stampa: cinque articoli raccolti. Due del Corriere della Sera (26/2 e 5/3), due del Messaggero (2/3 e 11/3) e uno di Libero del 28 febbraio.
Ma andiamo con ordine. Tra le tre testate giornalistiche con le loro tipiche caratteristiche e sfumature politiche/editoriali, l'unica posta in gioco è la discussione se il film potesse o meno riaccendere focolai antisemiti negli attuali difficili rapporti di dialogo interreligioso tra persone di diversa cultura e tradizione.
Corrierone del 26 febbraio: titolone in apertura a pagina trentanove a otto colonne: “The Passion” debutta in Usa, proteste e commozione. L'articolo, molto professionale di Alessandra Farkas, cerca di raccogliere varie opinioni espresse dalla stampa estera. La stroncatura del “Daily News” così come quella del “Washington Post”. Poi la chiosa con una testimonianza di Franco Zeffirelli che, ricordando l'amico Mel, lancia una frecciatina del tipo: “ Vedendo quelle sofferenze si penserà che la colpa (dell'uccisione del Cristo) è degli ebrei. Così si ritorna indietro di secoli”.
Il 28 febbraio e la volta di Libero che come al solito “feltrinianamente” (concedetemi il termine) esce con un titolone alternativo: “Ma quali Ebrei e quali Romani. Gesù l'hanno ucciso i calabresi”. Due sono gli articoli in riferimento: uno molto interessante del linguista Gianfranco Morra e l'altro di Miska Ruggeri. Tema della discussione: chi ha ucciso Gesù di Nazareth, gli Ebrei o i Romani? Dilemma abbastanza complesso e ardito come chiedersi se il Cristo fosse di destra o di sinistra.
Dopo lunghe disquisizioni poi, i due giungono alla conclusione che i soldati Romani della Legio X Fretenis, di stanza a Gerusalemme al tempo della Passione, furono arruolati nel 40 A.C. nelle terre dell'attuale Reggio Calabria. Cerco di trattenere il sorriso e vado avanti.
Il Messaggero del 2 marzo, invece, punta soprattutto sulla brutalità delle immagini rappresentate. Il film - scrive Orazio Petrosillo - non si preoccupa di rispondere alla domanda su “chi” abbia ucciso Gesù, piuttosto gli serve dimostrare il “come” sia stato ucciso. Una “pretesa singolare” quella di convertire mediante lo shock l'orrore in purificazione – ricorda ancora l'autore del pezzo.
Realismo evangelico e licenze poetiche del regista che si evincono nei titoli di testa dalla citazione riportata dal libro di Isaia 53,5 : “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
A questo punto il discorso si fa più interessante.
Continuo con il Corriere della Sera del 5 marzo. Intervista a caldo a Moni Ovadia (attore che si professa ebreo non credente di sinistra) dopo la visione del film. Titolo: “La Passione secondo Mel Gibson tutta orrore e sangue senza pietà”. “Se non posso accusare gli ebrei di aver ucciso Gesù” - ricorda l'attore - “ posso benissimo ritenerli i persecutori del popolo palestinese”. E via con la polemica sugli stereotipi antisemiti. La discussione s'accende poi sul piano della revisione storica dei fatti: la svolta del Concilio Vaticano II del 28/10/1965 in cui venne cancellata l'accusa agli Ebrei circa la responsabilità collettiva della morte del Cristo. E' questo il caso dell'ultimo articolo in analisi di Gloria Satta nel Messaggero del 11 marzo. Un Cristo che si è volontariamente sottomesso alla sua Passione e Morte a causa dei peccati di tutti gli uomini; un messaggio questo - ricorda la giornalista - testimoniato emblematicamente dal fatto che è lo stesso Gibson, nel film, ad inchiodare la mano di Gesù sulla croce.
Un film chiacchierato, “parlato” - direbbe il grande Maestro Portoghese Manoel De Oliveira - prima ancora d'esser visto.
Un film che intanto non ha neppure più di tanto sconvolto le massime istituzioni ecclesiastiche delle Vaticane stanze. “Il film è la trascrizione cinematografica dei vangeli”- ricorda al Messaggero il Portavoce del Vaticano - “se fosse antisemita, lo sarebbero anche i vangeli”.
A questo punto, scusate ma non resisto. La curiosità m'assale. Dopo tante parole, meglio fare un po' di silenzio, aspettare che si spengano le luci e lasciarsi trasportare dalle emozioni che solo la magia del cinema può dare.

 

 

 

 

 

 

Samuele Baccifava
   
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