Recensire l'ultima opera di Lars Von Trier senza soffermarsi sia, su alcuni suoi film precedenti che, soprattutto, nella sua particolare concezione filosofica del cinema come dogma, significa – usando una metafora – abbandonare una pittura nel momento esatto in cui si hanno a disposizione sia le tempere che una tela su cui disegnare. Una terribile indelicatezza, questa, da evitare.
Per tali motivi, armati di strumenti interpretativi e della giusta dose di curiosità da instillare al lettore, la redazione di Cinema UniBox ha deciso che per questo mese si riserverà di pubblicare la sola recensione di “Dogville” cosicché, il mese prossimo, con un immaginario viaggio a ritroso, si potrà meglio affrontare uno studio più approfondito sull'autore e sulle sue opere precedenti.
Uno studio ed un viaggio che attraverserà le tappe cruciali del percorso artistico di un regista anomalo, schivo e al di fuori dello star/system che, con le sue manie ed i suoi vezzi ha contribuito (e contribuisce tuttora) nel dare un nuovo volto al cinema europeo e non solo.
Un cinema visto come il laboratorio primordiale dell'esperienza del regista, deus ex machina dell'autocoscienza artistica.
Un cinema che pur sperimentando sé stesso, si contamina in altre forme artistiche diventando così solubile. Un cinema che si scioglie, dunque, che va oltre la pellicola per poi approdare in un “realismo psicologico” che si innesta nel tipico “Metodo Stanislavskij” di identificazione tra l'attore ed il suo personaggio.
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